Pubblicato il 13 Aprile 2023 da Veronica Baker
I risultati ottenuti hanno mostrato in maniera inequivocabile che strategie di trend following applicate a titoli azionari offrono effettivamente una un’aspettativa matematica di ottenere degli utili decisamente positiva, un elemento essenziale per un sistema di trading “efficace”.
Il trend following è efficace anche sui titoli azionari ?
Uno studio piuttosto datato, pubblicato nel lontano 2009, ma davvero decisamente interessante e soprattutto a mio avviso ancora attuale.

Nel corso degli anni molti proprietary traders e global macro hedge funds hanno applicato con successo vari metodi di trend following per operare con profitto sui mercati dei futures.
Tuttavia, sono state pubblicate pochissime ricerche sulle strategie di trend following applicate alle azioni.
È ragionevole supporre che il trend following “funzioni” esclusivamente per i futures ma non per le azioni ?
Nel documento che allego viene messa alla prova una strategia di trend following esclusivamente long per un database completo di azioni USA preventivamente rettificate in base alle corporate actions (stacco dividendi, dividendi pagati in titoli, split, reverse stock split).
La scelta dei titoli è stata compiuta in base alle seguenti caratteristiche fissate in anticipo :
Sono state incluse tutte le società “delistate” per tenere conto della distorsione da sopravvivenza
Sono state considerate delle stime realistiche dei costi di transazione (slippage e commissioni)
Sono stati utilizzati dei filtri preventivi per limitare il trading (ipotetico) a titoli sufficientemente liquidi per essere negoziati al momento dell’operazione
I risultati ottenuti hanno mostrato in maniera inequivocabile che strategie di trend following applicate a titoli azionari offrono effettivamente una un’aspettativa matematica di ottenere degli utili decisamente positiva, un elemento essenziale per un sistema di trading “efficace”.

In questo studio non sono state mai considerate strategie di vendite allo scoperto (short-selling).
Le ragioni sono piuttosto evidenti.
Il venditore allo scoperto (lo short seller) inizialmente ordina al suo broker di vendere azioni XYZ ad un valore prefissato.
Nella realtà solitamente lo short seller prende semplicemente in prestito il titolo XYZ direttamente dal broker stesso.
Quest’ultimo di solito detiene già l’azione XYZ nei portafogli azionari di fondi pensioni, fondi comuni od altri investitori (istituzionali e non).
Se questo non accade, lo short seller ha un tempo limitato (normalmente 3 giorni) per trovare qualcuno che possa fornire in prestito le azioni XYZ.
Nel caso (infrequente, ma può succedere) in cui lo short seller non riesca a soddisfare questo requisito, il broker eseguirà una operazione di buy-in.
Cioè il riacquisto forzato (entro l’orario di chiusura del mercato in cui è quotato il titolo XYZ) della posizione ribassista aperta in precedenza.
Chi presta il titolo XYZ (detto lender) può chiederne la restituzione in qualsiasi momento, quindi non c’è modo di sapere quando o se un venditore allo scoperto sarebbe stato soggetto ad un buy-in forzato .
Quindi non esiste un metodo affidabile per determinare quali titoli sarebbero stati realisticamente shortabili in passato.
Inoltre, rispetto al trend following di lungo periodo, la vendita allo scoperto offre un’aspettativa matematica molto limitata : il prezzo di un’azione può scendere al massimo del 100% (al contrario dei futures, che possono scendere all’infinito anche sotto lo zero a causa del fenomeno del cosiddetto “contango” ).
Di contro, può salire di un valore infinito.
Inoltre, in questo studio sono stati considerati esclusivamente titoli dal valore di $15 dollari come “prezzo minimo”, una decisione basata sul fatto che i titoli a basso prezzo tendono ad avere una volatilità statistica relativamente alta, oltre ad avere poco seguito a livello istituzionale.